Il Canto III dell’Inferno: la soglia e la scelta mancata
Il Canto III dell’Inferno è il canto della soglia. Dante e Virgilio varcano la porta dell’Inferno e leggono l’iscrizione più celebre della Divina Commedia: «Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate». Non è ancora il regno delle pene strutturate, ma uno spazio di transizione, dove domina il caos, il rumore, la confusione.
Qui Dante colloca una delle sue invenzioni morali più dure: gli ignavi, coloro che in vita non hanno mai scelto, né il bene né il male. Dal punto di vista storico e sociale, è una condanna che riflette la mentalità medievale ma anche l’esperienza personale di Dante, uomo politico esiliato, che disprezza chi non prende posizione nei momenti decisivi.
Il canto introduce anche Caronte, traghettatore infernale, figura di derivazione classica rielaborata in chiave cristiana. Il fiume Acheronte diventa il confine definitivo: da una parte i vivi, dall’altra chi ha perso ogni possibilità di riscatto. Il terremoto finale e lo svenimento di Dante chiudono il canto con una sensazione di smarrimento totale.
📖 Testo Originale: Canto III
«Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore:
fecemi la divina podestate,
la somma sapienza e ’l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate».
Queste parole di colore oscuro
vid’io scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben de l’intelletto».
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».
Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor, che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidiosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
que fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
que, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi
ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’io discerno per lo fioco lume».
Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte».
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no ’l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.
E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,
disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».
E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
que ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ’nteser le parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia,
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.
Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna.
«Figliuol mio», disse ’l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l’ira di Dio
tutti convegnon qui d’ogne paese:
e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».
Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
que balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l’uom cui sonno piglia.
La versione trap – Il rumore dell’Inferno prima dell’Inferno
La versione trap del Canto III si muove su un registro più cupo e aggressivo rispetto al canto precedente. Se il Canto II era dominato dal dubbio, qui il protagonista entra in contatto con una massa anonima, senza volto, senza identità, fatta di urla, bestemmie, lamenti continui.
Il flow può essere spezzato, martellante, quasi caotico, per restituire il “tumulto” descritto da Dante: lingue diverse, voci sovrapposte, rumori metallici, percussioni che imitano il battito ossessivo della folla. L’Inferno non viene presentato subito come punizione, ma come assenza di senso.
Gli ignavi diventano simbolo contemporaneo di chi vive “in stand-by”: spettatori passivi, followers senza direzione, persone che non prendono posizione. Caronte assume tratti più duri, quasi da guardiano di confine, voce brutale che separa chi può ancora tornare indietro da chi è ormai intrappolato.
🎤 Testo Canzone: Guarda Avanti (Trap Track)
Benvenuti nel viaggio eterno,
dove la giustizia brucia e scolpisce l’inferno…
Dante alla guida, Virgilio compagno,
s’apre la porta del dolore sovrano…
“Per me si va nella città dolente,
per me si va nell’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e ’l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.”
(Fratè, se entri qui dentro, non torni mai più…)
Dante legge il monito e non capisce,
chiede al maestro, che subito gli dice:
“Qua si lascia il dubbio, la paura si spegne,
perché iniziamo il viaggio tra le anime indegne.”
Siamo nel limbo tra luce e tormento,
sospiri nell’aria, senza un firmamento.
È l’inferno degli ignavi, che mai scelsero,
né il bene né il male, per paura vissero.
Non sono né santi né dannati davvero,
né angeli fedeli, né ribelli sul serio.
Il cielo li rifiuta per non macchiar la bellezza,
l’inferno li scarta: non meritano neanche amarezza.
La loro pena è eterna indecisione,
punture d’insetti, vermi in processione…
E dietro a una bandiera corrono in massa,
simbolo del nulla: la loro è solo farsa.
Tra loro Dante scorge un’anima in fuga:
chi per viltà fece il “gran rifiuto”, amico – è una fuga!
“Non ragioniam di lor”, dice Virgilio sagace,
“ma guarda e passa, ché il tempo non ci piace.”
Poi, al fiume Acheronte, si va più in giù,
tra le ombre stanche che non sperano più.
Arriva Caronte, vecchio e feroce,
con gli occhi di brace e la rabbia in voce.
“Anime prave! Non vedrete mai il cielo!”
Ma Dante è vivo e il barcaiolo si oppone,
“Non è il tuo tempo, vattene dalle persone!”
Ma Virgilio risponde, solenne e deciso:
“Così vuol colui che tutto ha previsto.”
“Per me si va nella città dolente…”
(dove il pianto non dorme)
“…tra la perduta gente…”
(dove chi visse senz’anima ora piange)
“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.”
(Questa è solo l’entrata!)
Le anime bestemmiano, si battono i denti,
odiando i genitori, i giorni presenti.
Maldissero il tempo, la razza, il destino,
ma è la giustizia divina a spingerli in cammino.
Come foglie d’autunno cadono a frotte,
sull’altra riva vanno, tra urla e lotte.
“Chi muore nell’ira”, dice il maestro gentile,
“arriva qui spinto da legge sottile.
La paura si fa desiderio dannato,
perché il male li attira, come ferro incantato.”
E quando il suolo trema e l’aria si spacca,
Dante sviene: il dolore lo schiaccia.
Così finisce il canto, e il viaggio è appena iniziato…
In ogni rima, un dannato,
in ogni verso, un peccato…
E tu che ascolti, fratè, scegli il tuo lato.
Confronto tra Dante e la trap – La condanna dell’indifferenza
Il legame tra il Canto III originale e la sua versione trap è fortissimo sul piano concettuale.
- L’iscrizione sulla porta (“Lasciate ogne speranza”) diventa, nel linguaggio trap, una sentenza secca, definitiva, che non ammette repliche.
- Il caos sonoro dell’Inferno dantesco si traduce in beat distorti, voci sovrapposte, rumori di fondo: l’Inferno è prima di tutto rumore senza direzione.
- Gli ignavi, che Dante rifiuta persino di descrivere in dettaglio (“non ragioniam di lor, ma guarda e passa”), diventano nella trap una folla senza nome, punita non per ciò che ha fatto, ma per ciò che non ha mai fatto.
- Caronte resta il simbolo del punto di non ritorno: nel poema incarna la giustizia divina che non si discute; nella trap è la voce fredda del sistema che esegue, non spiega.
In entrambe le versioni, il messaggio è netto: non scegliere è già una scelta, ed è una delle più gravi. Il canto non parla solo dell’aldilà, ma della responsabilità individuale nel presente. Per questo il Canto III, anche in versione trap, risuona ancora con forza nel mondo contemporaneo.
