Il Canto VII dell’Inferno: Il peso della colpa
Il Canto VII dell’Inferno si colloca nella quarta cerchia, dove Dante incontra gli avari e i prodighi, anime condannate a spingere enormi pesi in direzioni opposte, scontrandosi eternamente. A custodire il cerchio c’è Pluto, demone della ricchezza, che apre il canto con l’enigmatico e celebre grido: «Pape Satàn, pape Satàn aleppe!».
Il tema centrale è la cattiva gestione dei beni materiali, vista non solo come peccato individuale ma come distorsione morale e sociale. Dante attacca apertamente anche papi e cardinali, riflettendo il clima storico del primo Trecento, segnato da una Chiesa percepita come corrotta e troppo legata al potere economico.
Il canto introduce inoltre una delle più alte riflessioni filosofiche della Commedia: la Fortuna, intesa non come caso cieco ma come ministra divina, incaricata di redistribuire i beni terreni secondo un disegno superiore, incomprensibile all’uomo. Il tutto culmina nella discesa verso la palude Stigia, dove compaiono gli iracondi e gli accidiosi, immersi nel fango e nella propria rabbia repressa.
Canto VII – (Testo Originale)
«Pape Satàn, pape Satàn aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: «Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia».
Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,
e disse: «Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.
Non è sanza cagion l’andare al cupo:
vuolsi ne l’alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo».
Quali dal vento le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.
Così scendemmo ne la quarta lacca
pigliando più de la dolente ripa
che ’l mal de l’universo tutto insacca.
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant’io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa?
Come fa l’onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s’intoppa,
così convien che qui la gente riddi.
Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa,
e d’una parte e d’altra, con grand’urli,
voltando pesi per forza di poppa.
Percoteansi ’ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».
Così tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l’opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand’era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
E io, ch’avea lo cor quasi compunto,
dissi: «Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra».
Ed elli a me: «Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro l’abbaia
quando vegnono a’ due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.
Questi fuor cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio».
E io: «Maestro, tra questi cotali
dovre’ io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali».
Ed elli a me: «Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi
ad ogne conoscenza or li fa bruni.
In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna,
per che l’umana gente si rabbuffa;
ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già fu, di quest’anime stanche
non poterebbe farne posare una».
«Maestro mio», diss’io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».
E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue permutazion non hanno triegue;
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest’è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.
Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand’io mi mossi, e ’l troppo star si vieta».
Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
sovr’una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.
L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
intrammo giù per una via diversa.
In la palude va c’ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand’è disceso
al piè de le maligne piagge grige.
E io, che di mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.
Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co’ denti a brano a brano.
Lo buon maestro disse: «Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
e anche vo’ che tu per certo credi
che sotto l’acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest’acqua al summo,
come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.
Fitti nel limo, dicon: “Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidioso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra”.
Quest’inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra».
Così girammo de la lorda pozza
grand’arco tra la ripa secca e ’l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.
Trap infernale: beat, rabbia e destino
Stile e contenuti de “L’anguìnico serpente – Settimo canto”
La versione trap trasporta l’Inferno dantesco in un immaginario urbano e contemporaneo, fatto di bassi cupi, eco distorte e un flow moderno che restituisce fisicamente il senso di oppressione e caos del canto originale.
Il linguaggio è diretto, colloquiale, spesso crudo: una scelta coerente con l’estetica trap, che qui diventa strumento narrativo. La Fortuna si trasforma in una forza che “gira”, imprevedibile come il successo o il fallimento nella società odierna; l’oro sotto la luna diventa metafora della vacuità del denaro e dello status.
Le figure dantesche (Pluto, Virgilio, i chierici, le anime dannate) vengono rilette come icone simboliche, mentre l’“anguìnico serpente” richiama un destino strisciante, occulto, che si insinua nelle vite umane senza mai mostrarsi del tutto.
L’anguìnico serpente – Settimo canto (Trap Version)
Pape Satàn, pape Satàn aleppe
(eco distorto, come rimbombo da club)
Voce chioccia nel beat, suona greve
Scendo giù, bro, non c’è chi mi leva
Giù nella lacca, pesa la ripa
(ahi giustizia, la colpa che strippa)
Frà, giran pesi, urlano “perché tieni?”
E io qua, perso tra mille schemi
Yeah, yeah, la fortuna gira
(Nell’ombra l’anguìnico serpente, destino che si sfila)
Brò, tutto l’oro sotto la luna
Non compra pace, è fuffa, è schiuma
Pluto abbaia, “taci maladetto lupo”
(la rabbia dentro, che ti mangia il corpo)
Cade come vela al vento che si spezza
Skrr, sto cerchio è solo altra carezza
Di fuoco, di pena, di colpa passata
Sapegno dice: “è giustizia velata”
E Singleton frà, spiega la rota
La fortuna spinge, la sorte scuote
(yo perché burli? yo perché tieni?)
(yo voci nel buio, spine nei pensieri)
Cardinali, papi, chierici in catene
(Mal dare, mal tener: eterna pena)
Testa bassa, mani strette, pugni chiusi
Frà, quei crini mozzati, visi confusi
Vita sprecata, mente guercia
(Sapere negato, coscienza persa)
Tra fango e Stige, l’ira divora
Voce strozzata che mai si scolora
Bro, tutto gira, la sorte si muove
(Ministra occulta, la luce che piove)
C’è chi comanda, c’è chi scompare
È la fortuna che fa respirare
Scendo giù, maestro mi guida
(Stelle cadono, il tempo mi sfida)
Palude Stige, corpi nel fango
Yeah, fra’, è l’Inferno, e io ci rimango.
Dalla terzina al beat
Confronto tra il Canto VII e il brano trap
Nel testo di Dante, gli avari e i prodighi sono puniti perché incapaci di dare una direzione etica al proprio rapporto con i beni materiali. Nel brano trap, questo stesso concetto viene espresso attraverso immagini di confusione mentale, schemi spezzati, urla ripetute (“perché tieni?” / “perché burli?”), che diventano quasi un loop ossessivo, come il girare eterno delle anime.
La spiegazione dottrinale di Virgilio sulla Fortuna trova un corrispettivo nei versi che parlano di una forza che decide chi sale e chi scompare, molto vicina alla percezione moderna delle dinamiche economiche e sociali.
La discesa finale verso lo Stige, con gli iracondi immersi nel fango, si riflette in immagini sonore e visive di corpi, rabbia e voce strozzata, perfettamente compatibili con l’immaginario trap.
In entrambi i casi, il messaggio è chiaro: la ricchezza senza misura e la rabbia non elaborata imprigionano l’uomo, ieri come oggi.
Un Inferno che parla ancora
Perché Dante funziona nella trap
Questo adattamento dimostra come la Divina Commedia non sia un monumento immobile, ma un testo vivo, capace di dialogare con i linguaggi contemporanei. La trap, con la sua attenzione al disagio, al conflitto e alla disillusione, si rivela un mezzo sorprendentemente efficace per restituire la violenza morale del Canto VII.
Il risultato non è una semplificazione, ma una trasposizione tematica, dove il beat sostituisce la terzina e il flow prende il posto della rima incatenata, mantenendo intatto il nucleo concettuale dantesco.
