Il cerchio della violenza: quando il sangue diventa paesaggio
Il canto di Dante: la violenza punita nel sangue
Il Canto XII dell’Inferno segna l’ingresso nel Settimo Cerchio, dedicato alla violenza. Dante e Virgilio scendono lungo una frana rocciosa che conduce alla riviera del Flegetonte, un fiume di sangue bollente in cui sono immersi i violenti contro il prossimo: tiranni, assassini, predatori di vite e di ricchezze.
Il canto è dominato da immagini fisiche e brutali:
- il Minotauro, simbolo dell’ira bestiale e dell’ibridazione tra ragione e ferocia;
- i Centauri, custodi armati della giustizia divina, che colpiscono chi tenta di sottrarsi alla pena;
- il sangue che diventa ambiente, misura della colpa, livello della condanna.
Dal punto di vista storico e sociale, Dante colpisce il potere politico violento del suo tempo: tiranni, signori della guerra, dominatori che hanno fondato il loro potere sul sangue. La giustizia divina non è astratta: è concreta, visibile, proporzionata.
Canto XII – Inferno (Testo Originale)
Era lo loco ov’a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’anco,
tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.
Qual è quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l’Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:
cotal di quel burrato era la scesa;
e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamia di Creti era distesa
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca.
Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse?
Pàrtiti, bestia: ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene».
Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ha ricevuto già ’l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,
vid’io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco:
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale».
Così prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.
Io gia pensando; e quei disse: «Tu pensi
forse a questa ruina ch’è guardata
da quell’ira bestial ch’i’ ora spensi.
Or vo’ che sappi che l’altra fiata
ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,
da tutte parti l’alta valle feda
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
sentisse amor, per lo qual è chi creda
più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece riverso.
Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per violenza in altrui noccia».
Oh cieca cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!
Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto ’l piano abbraccia,
secondo ch’avea detto la mia scorta;
e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.
Veggendoci calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;
e l’un gridò da lungi: «A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l’arco tiro».
Lo mio maestro disse: «La risposta
farem noi a Chirón costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta».
Poi mi tentò, e disse: «Quelli è Nesso,
che morì per la bella Deianira
e fé di sé la vendetta elli stesso.
E quel di mezzo, ch’al petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira.
Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille».
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle:
Chirón prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.
Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
disse a’ compagni: «Siete voi accorti
che quel di retro move ciò ch’el tocca?
Così non soglion far li piè d’i morti».
E ’l mio buon duca, che già li er’al petto,
dove le due nature son consorti,
rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessità ’l ci ’nduce, e non diletto.
Tal si partì da cantare alleluia
che mi commise quest’officio novo:
non è ladron, né io anima fuia.
Ma per quella virtù per cu’ io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,
e che ne mostri là dove si guada
e che porti costui in su la groppa,
ché non è spirto che per l’aere vada».
Chirón si volse in su la destra poppa,
e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,
e fa cansar s’altra schiera v’intoppa».
Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ’l gran centauro disse: «E’ son tiranni
che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.
Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dionisio fero,
che fé Cicilia aver dolorosi anni.
E quella fronte c’ha ’l pel così nero,
è Azzolino; e quell’altro ch’è biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero
fu spento dal figliastro sù nel mondo».
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
«Questi ti sia or primo, e io secondo».
Poco più oltre il centauro s’affisse
sovr’una gente che ’nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.
Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola».
Poi vidi gente che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto ’l casso;
e di costoro assai riconobb’io.
Così a più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.
«Sì come tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema»,
disse ’l centauro, «voglio che tu credi
che da quest’altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.
La divina giustizia di qua punge
quell’Attila che fu flagello in terra
e Pirro e Sesto; e in etterno munge
le lagrime, che col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra».
Poi si rivolse, e ripassossi ’l guazzo.
“Bollente Sangue”: la trap come Inferno contemporaneo
La tua versione trap trasforma il canto in un viaggio sonoro cupo, viscerale e urbano. Il linguaggio si fa diretto, sporco, senza mediazioni: la frana non è solo geologica, ma morale e sociale. Il sangue che bolle non è più solo quello dei tiranni medievali, ma quello di ogni violenza sistemica che attraversa il presente.
Stilisticamente:
- il flow martellante richiama l’ineluttabilità della pena;
- la base lenta e scura amplifica il senso di oppressione;
- gli incisi fuori campo funzionano come eco infernali, voci che emergono dal paesaggio sonoro come anime sommerse.
La trap diventa qui uno strumento narrativo potente: non edulcora Dante, lo radicalizza, lo riporta alla sua carica disturbante originaria.
Bollente Sangue – dodicesimo canto (Trap Version)
base lenta, cupa, con riverbero
Yeah, frà… (Inferno brucia)
Scendo giù, alpestro VIBE, loco crudo, niente fake.
(Sfregiato Minotauro)
Brò, guarda la frana, Trento trema, roccia a pezzi, mondo che crolla—merda!
ritmato, flow martellante
Sangue che bolle, tiranni nel fiume,
centauri a cavallo, puntano l’arco, boom.
Scendo nell’ombra, la guida mi illumina,
(questo non è un gioco) giustizia che punge.
Sangue che bolle, tiranni nel fiume,
la voce di Dante risuona nel TUNE,
Eco di Sapegno che spiega la scena,
ma io lo vivo, fra’, trappo la pena.
voce roca, flow serrato
Minotauro impazzito, s’è morso da solo,
bestia di Creti, mito che cola sangue e odio.
(Vede noi, s’incazza)
Non è Teseo che hai davanti,
è solo un viaggiatore col maestro accanto.
Fratè, la roccia crollata da poco,
scossa che ha fatto tremare l’universo.
(Universo caòsssss)
Dicevano gli antichi: amore che muove,
ma qua muove merda, dolore e catene nuove.
Sangue che bolle, tiranni nel fiume,
centauri a cavallo, puntano l’arco, boom.
Scendo nell’ombra, la guida mi illumina,
(questo non è un gioco) giustizia che punge.
Sangue che bolle, tiranni nel fiume,
la voce di Dante risuona nel TUNE,
Eco di Contini che scava la rima,
qui si consuma la furia assassina.
flow più lento, più cupo
Chirón con lo strale (freccia antica), barba che gratta,
«È vivo, non è morto», dice, zio, guarda.
(Necessità, non diletto)
Achille da bambino aveva la sua mano,
ora guida Nesso nel fiume vermiglio,
mentre gridano forte i dannati nel bagno.
Brò, tiranni nel sangue: Alessandro, Dionisio,
Azzolino, Opizzo, storia che brucia, Cristo!
(Flagello in terra)
Attila punito, Pirro condannato,
le strade in guerra, Rinieri dannato.
Sangue che bolle, tiranni nel fiume,
centauri a cavallo, puntano l’arco, boom.
Scendo nell’ombra, la guida mi illumina,
(questo non è un gioco) giustizia che punge.
base svanisce, eco di voci spezzate
Fratè, cieca cupidigia ci spinge nel nulla,
vita corta, eternità che sfuma.
(Sangue, merda, fuoco)
Scendo, ma vedo, e la rima mi salva,
trap infernale che vibra nell’alba.
Dante e la trap: un confronto di contenuti
Il legame tra il testo originale e il brano trap è forte e strutturale.
- Il Minotauro di Dante, figura mitologica, diventa nella canzone un simbolo di follia rabbiosa, di istinto che si autodistrugge.
- I Centauri restano custodi armati, ma assumono una dimensione quasi paramilitare, più vicina all’immaginario urbano e contemporaneo.
- I nomi storici (Attila, Dionisio, Azzolino) non sono semplici citazioni: diventano archetipi eterni del potere violento, riconoscibili anche oggi.
Dante spiegava l’Inferno ai suoi contemporanei; la trap fa lo stesso con il pubblico di oggi. Cambia il linguaggio, non la funzione: denunciare, mostrare, costringere a guardare.
Il sangue come metrica morale
Nel canto XII il sangue non è solo punizione, ma unità di misura della colpa. La tua canzone riprende questo concetto e lo traduce in suono: più la violenza è profonda, più il beat si fa denso, più la voce scende di tono, più l’atmosfera diventa soffocante.
La trap infernale non racconta dall’esterno: ci entra dentro, come Dante nel fiume, accompagnato dalla guida ma mai al sicuro.
Operazione culturale: perché son certo che funzioni
Questa riscrittura non è parodia né semplice esercizio di stile. È un’operazione culturale coerente:
- rispetta la struttura narrativa del canto;
- mantiene i riferimenti storici;
- usa un linguaggio contemporaneo per restituire l’urto morale del testo originale.
Dante diventa così ascoltabile, non semplificato. E la trap dimostra di poter essere epica, civile, letteraria.
