Alle porte di Dite: paura, superbia e fuoco eterno
Il Canto IX dell’Inferno tra mitologia, teologia e politica medievale
Il Canto IX dell’Inferno si colloca in un momento di forte tensione narrativa: Dante e Virgilio sono bloccati davanti alle porte della città di Dite, presidiate dai demoni. È il primo vero arresto del viaggio infernale e segna il passaggio dall’Inferno “superiore” a quello “inferiore”, dove le colpe diventano più gravi e consapevoli.
Il tema centrale è la paura dell’uomo davanti al limite, ma anche l’impotenza della sola ragione (Virgilio) senza l’intervento divino. La comparsa delle Erinni, di Medusa e infine del Messo celeste intreccia mitologia classica e dottrina cristiana, in un contesto storico in cui eresia, superbia intellettuale e disobbedienza all’ordine divino erano percepite come minacce reali all’equilibrio sociale e politico del Medioevo.
Il canto si chiude con l’ingresso tra i sepolcri infuocati degli eretici, simbolo di verità negate e idee irrigidite, punite con un fuoco eterno che non purifica ma consuma.
Canto IX – Testo Originale
Quel color che viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse.
Attento si fermò com’uom ch’ascolta;
ché l’occhio nol potea menare a lunga
per l’aere nero e per la nebbia folta.
«Pur a noi converrà vincer la punga»,
cominciò el, «se non… Tal ne s’offerse.
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!».
I’ vidi ben sì com’ei ricoperse
lo cominciar con l’altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir dienne,
perch’io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.
«In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?».
Questa question fec’io; e quei «Di rado
incontra», mi rispuose, «che di noi
faccia il cammino alcun per qual io vado.
Ver è ch’altra fiata qua giù fui,
congiurato da quella Eritón cruda
che richiamava l’ombre a’ corpi sui.
Di poco era di me la carne nuda,
ch’ella mi fece intrar dentr’a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
Quell’è ’l più basso loco e ’l più oscuro,
e ’l più lontan dal ciel che tutto gira:
ben so ’l cammin; però ti fa sicuro.
Questa palude che ’l gran puzzo spira
cigne dintorno la città dolente,
u’ non potemo intrare omai sanz’ira».
E altro disse, ma non l’ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furie infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
Quest’è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme, e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.
«Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Teseo l’assalto».
«Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
ché‚ se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».
Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani.
E già venia su per le torbide onde
un fracasso d’un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti fatto che d’un vento
impetuoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz’alcun rattento
li rami schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
Li occhi mi sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo».
Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
fin ch’a la terra ciascuna s’abbica,
vid’io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
passava Stige con le piante asciutte.
Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso.
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta, e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno.
«O cacciati del ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta?
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ha cresciuta doglia?
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo».
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d’omo cui altra cura stringa e morda
che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
sicuri appresso le parole sante.
Dentro li ’ntrammo sanz’alcuna guerra;
e io, ch’avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
com’io fui dentro, l’occhio intorno invio;
e veggio ad ogne man grande campagna
piena di duolo e di tormento rio.
Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com’a Pola, presso del Carnaro
ch’Italia chiude e suoi termini bagna,
fanno i sepulcri tutt’il loco varo,
così facevan quivi d’ogne parte,
salvo che ’l modo v’era più amaro;
ché tra gli avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun’arte.
Tutti li lor coperchi eran sospesi,
e fuor n’uscivan sì duri lamenti,
che ben parean di miseri e d’offesi.
E io: «Maestro, quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell’arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti?».
Ed elli a me: «Qui son li eresiarche
con lor seguaci, d’ogne setta, e molto
più che non credi son le tombe carche.
Simile qui con simile è sepolto,
e i monimenti son più e men caldi».
E poi ch’a la man destra si fu vòlto,
passammo tra i martiri e li alti spaldi.
Sepolcri di Fuoco: Dante in chiave Trap
Nebbia, beat e inferno urbano
La versione trap del Canto IX trasporta l’angoscia dantesca in un immaginario urbano e contemporaneo, fatto di nebbia, suoni cupi, paura interiore e figure minacciose che sembrano uscite da un incubo metropolitano.
Il linguaggio è diretto, crudo, spesso colloquiale: la palude Stigia diventa un fango che puzza, la città di Dite una roccaforte ostile, le Erinni assumono un’aura quasi da “regine dark” della notte. Il beat immaginario accompagna il senso di oppressione, mentre Virgilio resta la guida lucida, quella voce che invita a resistere e a “chiudere gli occhi” davanti alla paralisi della paura.
La trap non semplifica Dante: ne distilla l’ansia, la rende fisica, respirabile, trasformando l’allegoria medievale in esperienza emotiva immediata.
Sepolcri di Fuoco – Nono Canto (Trap Version)
Brò, c’è nebbia fitta, non vedo manco il mio passo
(fottuta paura che stringe, frà)
Virgilio mi guarda, dice: “sta calmo”
ma dentro sento il gelo che spacca.
In mezzo al buio, tra le furie e le spine
le Erinni urlano, frà, sembrano regine
Medusa giù chiama, vuole la mia fine
(maestro mi volta, chiudi gli occhi, resiste).
Fango che puzza, palude che stringe
le anime scappano, chi resta si finge
come rane nell’acqua spariscono, frà
che arriva il messo dal cielo già qua.
Verghetta in mano, la porta si apre
cani dell’inferno muti, zero chiacchiere
(O cazzo, senti il fracasso che spacca)
sto dentro al cerchio, la città m’attacca.
Sotto le tombe la fiamma divora
urla spezzate, la notte non vola
Chi sono? — gli eretici, brò, condannati
Calvino lo disse: i versi son velati.
(Sto nel fuoco, ma cerco dottrina
velame di versi, luce che brilla)
Sepolcri di sangue, campagna che piange
inferno che pulsa, tormento che frange
suoni che rompono l’aria e la mente
(pure Virgilio trema, ma resta presente).
Dentro le arche ardono genti sfregiate
voci di rabbia, di colpe dannate
Simile a simile, frà, tutti sepolti
è legge di merda, i sepolcri son colti.
Yeah, città dolente, strada che consuma
(fuoco che sale, fumo che brucia)
tra i sepolcri e le grida cammino
con l’anima stanca ma l’occhio divino.
Dal poema al beat: dialogo tra Dante e la Trap
Stessi simboli, nuovo linguaggio
Il legame tra il testo originale e il brano trap è profondo e strutturato:
- La paura di Dante diventa ansia contemporanea, gelo interiore, blocco emotivo.
- Le Erinni e Medusa restano simboli della paralisi e del terrore, ma assumono un’estetica moderna, quasi cinematografica.
- Il Messo celeste è ancora la forza superiore che spezza l’arroganza infernale: nella trap è un evento improvviso, un “drop” narrativo che cambia tutto.
- Gli eretici nei sepolcri di fuoco diventano metafora di chi resta imprigionato nelle proprie idee, incapace di evolvere.
La trap non tradisce Dante: lo attraversa, rendendo esplicito quel “velame” che il poeta stesso invita a interpretare. Dove il verso medievale suggerisce, il testo musicale colpisce diretto, ma il messaggio resta lo stesso: senza guida, l’uomo si perde.
