Il Canto II dell’Inferno: il dubbio prima del viaggio
Il Canto II dell’Inferno è uno dei più importanti dell’intera Divina Commedia perché non descrive un luogo infernale, ma uno stato d’animo: il dubbio. Dante è fermo, sul limitare del viaggio, quando il giorno finisce e la notte cala. È il momento simbolico della paura, dell’incertezza, della tentazione di rinunciare.
Qui Dante mette in scena una crisi profondamente umana e storicamente comprensibile. Siamo all’inizio del Trecento: l’uomo medievale vive in un mondo rigidamente ordinato, dove il viaggio ultraterreno è cosa riservata a figure eccezionali come Enea o San Paolo. Dante, esule, fragile, consapevole dei propri limiti morali e intellettuali, si chiede se sia davvero degno di affrontare un’esperienza così assoluta.
Il canto introduce anche uno dei temi centrali della Commedia: la salvezza come cooperazione tra volontà umana e grazia divina. Virgilio racconta infatti che il suo intervento non è casuale: tre figure femminili – Beatrice, Lucia e Rachele – si sono mosse dal Paradiso per soccorrere Dante. L’amore, non la forza, mette in moto il viaggio. La paura non viene negata, ma attraversata.
📖 Testo Originale: Canto II
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
que ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvio il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui e ’l chi e ’l quale,
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero.
Per quest’andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d’elezione,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione.
Ma io perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enea, io non Paulo sono:
me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’io ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
que fu nel cominciar cotanto tosta.
«S’i’ ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell’ombra;
«l’anima tua è da viltade offesa;
la qual molte fiate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand’ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’io venni e quel ch’io ’ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
“O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ’l mondo lontana,
l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che volt’è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ha mestieri al suo campare
l’aiuta, sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui”.
Tacette allora, e poi comincia’ io:
“O donna di virtù, sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,
tanto m’aggrada il tuo comandamento,
que l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l’ampio loco ove tornar tu ardi”.
“Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente”, mi rispuose,
“perch’io non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c’hanno potenza di fare altrui male;
de l’altre no, ché non son paurose.
I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
que la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d’esto incendio non m’assale.
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo ’mpedimento ov’io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: – Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando -.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
que mi sedea con l’antica Rachele.
Disse: – Beatrice, loda di Dio vera,
ché‚ non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?
non odi tu la pieta del suo pianto?
non vedi tu la morte che ’l combatte
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? –
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com’io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch’onora te e quei ch’udito l’hanno”.
Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse;
per che mi fece del venir più presto;
e venni a te così com’ella volse;
d’inanzi a quella fiera ti levai
que del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che è? perché, perché restai?
perché tanta viltà nel core allette?
perché ardire e franchezza non hai?
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e ’l mio parlar tanto ben ti promette?».
Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec’io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch’i’ cominciai come persona franca:
«Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch’ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!
Tu m’hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
ch’i’ son tornato nel primo proposto.
Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore, e tu maestro».
Così li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro.
La versione trap – Flow moderno per una crisi eterna
La traccia trap “Cammino Alto – Secondo canto” traduce questo momento di esitazione in un linguaggio contemporaneo, urbano, diretto. Il setting non è più quello solenne della poesia medievale, ma una notte emotiva, fatta di insicurezze, confronto con se stessi, sindrome dell’impostore.
Il flow è riflessivo, quasi confessionale, e alterna strofe introspettive a interventi di Virgilio che assume il ruolo di mentor, di guida calma che ridimensiona la paura. Il lessico è semplice, colloquiale, volutamente lontano dalla retorica alta: proprio come nel canto originale, il protagonista non è un eroe, ma un uomo che dubita.
La scelta di esplicitare l’allegoria delle tre donne (“Trinità femminile in missione”) è coerente con la cultura rap/trap, che spesso rende manifesto ciò che altrove resta simbolico. Il brano non ironizza sul testo di Dante: lo ricodifica, mantenendo intatto il nucleo emotivo del canto.
🎤 Testo Canzone: Cammino Alto (Trap Track)
calava il sole e già tremavo,
in viaggio col poeta, ma dubitavo.
“Ce la farò?” – mi chiedo in silenzio,
troppo grande il compito, troppo immenso.
Non sono Enea né Paolo l’apostolo,
non ho la chiamata, non sono all’alto livello.
Questi son scesi laggiù per un senso,
io? Un semplice uomo, fragile e denso.
Ma Virgilio mi guarda e mi spiega piano:
“Non temere, bro, ti tengo per mano.
Tre donne del cielo ti han preso a cuore,
la paura non regge davanti all’amore.”
Beatrice la prima, dal volto lucente,
mi parlò decisa, calma e potente:
“Un amico s’è perso, scivola giù,
salvalo tu, Virgilio, fallo per me, su!”
Lucia le fu accanto, luce che guida,
e poi Rachele, che osserva e non sfida.
Così Virgilio scende e viene da me,
“Alzati in piedi e combatti, ok?
Non puoi restare fermo, bloccato dal timore,
quando il cielo ti muove con tanto amore!”
Mi sento rinato, il cor si rinfranca,
la fede ritorna, la paura si stanca.
“Maestro,” – dico – “guidami tu,
affronto l’Inferno, non torno più.”
E così partimmo, senza più indugio,
verso il buio del mondo, col coraggio in pugno.
Inizia il viaggio, si apre il cammino,
tra ombre e peccati… verso il divino.
Confronto tra Dante e la trap – Stessa paura, linguaggi diversi
Nel Canto II dell’Inferno e nella sua versione trap il centro narrativo è lo stesso: la paura di non essere all’altezza.
- Dante dice: “Io non Enea, io non Paulo sono”
La trap risponde: “Non sono Enea né Paolo l’apostolo, / non ho la chiamata, non sono all’alto livello.” - La “viltade” che blocca Dante sulla “oscura costa” diventa, nel brano, una paralisi mentale: il sentirsi troppo piccoli davanti a un compito enorme.
- Virgilio resta la figura chiave in entrambe le versioni: nel poema è la ragione illuminata dalla grazia; nella trap è la voce che rassicura, che “ti tiene per mano” quando il dubbio prende il sopravvento.
- Le tre donne benedette, motore invisibile del viaggio dantesco, vengono reinterpretate come forze simboliche: grazia, luce, contemplazione. Cambia il linguaggio, non la funzione.
In entrambe le opere, il canto si chiude con la rinascita del coraggio. Dante ritrova l’“ardire e franchezza”; il protagonista della trap sente la fede che ritorna e accetta di partire. Il viaggio nell’Inferno non comincia con la forza, ma con una scelta interiore.
