Il turbine del desiderio: il Canto V dell’Inferno
Il Canto V dell’Inferno segna l’ingresso di Dante nel secondo cerchio, quello dei lussuriosi, dove sono punite le anime che in vita hanno sottomesso la ragione al desiderio. A custodire l’accesso c’è Minosse, giudice infernale che assegna a ogni anima la pena avvolgendo la coda tante volte quanti sono i cerchi da scendere.
Il paesaggio è dominato da una bufera incessante, simbolo della passione che travolge e non concede tregua. I dannati sono trascinati dal vento senza mai trovare posa, così come in vita furono trascinati dall’amore inteso non come sentimento armonico, ma come impulso irrefrenabile.
Dal punto di vista storico e sociale, Dante riflette la visione medievale della lussuria: non il peccato più grave, ma uno dei più umani. Proprio per questo il canto è pervaso da pietà, culminando nell’episodio di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta, emblema di un amore nato dalla letteratura e finito nel sangue. Dante non li condanna apertamente: li ascolta, li comprende, e alla fine sviene, sopraffatto dall’empatia.
Canto V – Testo Originale
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
dicono e odono, e poi son giù volte.
«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,
«guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali;
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l’aura nera sì gastiga?».
«La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.
L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I’ cominciai: «Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
Trap infernale: estetica e linguaggio della riscrittura
La versione trap “Condanna col vento – Quinto Canto” rilegge l’Inferno dantesco attraverso un flow moderno, diretto e urbano, sostituendo la solennità del verso endecasillabo con un linguaggio crudo, esplicito e fortemente emotivo.
Lo stile mescola:
- parlato ritmato e barre aggressive,
- ritornelli melodici con autotune,
- incisi fuori campo che funzionano come una coscienza o commento meta-narrativo.
Il registro linguistico è volutamente sporco e contemporaneo, perché il peccato della lussuria non viene raccontato come concetto astratto, ma come errore quotidiano, istintivo, riconoscibile. Il vento infernale diventa una metafora moderna della dipendenza emotiva, del desiderio che domina e distrugge.
Condanna col vento – Quinto Canto (Trap Version)
scendo al secondo, fratè… qua la merda è nera.
(la lussuria non è la peggiore, ma ti fotte il cuore.)
Minòs ringhia, contorce ‘sta coda bastarda,
ti legge l’anima e ti schianta giù a raffica.
(Il giudice infame – coscienza feroce.)
[Strofa 1] Tocca a chi ama col cazzo e non col cervello,
la carne che comanda, il cuore in duello.
Sono i lussuriosi – schiavi del fuoco che brucia.
Sbattuti dal vento, come stracci nell’aria,
nessuna tregua, solo rabbia e nostalgia.
(Il vento li sballotta – desiderio che diventa echo manno.)
Urlano forte, bestemmie e lamenti,
la passione ti solleva… ma poi ti scassi i denti.
(La tempesta è dentro – e non finisce mai.)
[Ritornello – melodico con autotune] E girano, girano, come anime in fuoco,
l’amore li ha presi, ma li ha fottuti in blocco.
(Quando ami solo per te, poi non finisce mai.)
[Strofa 2] «Chi sono?» chiedo, ma già li vedo,
Semiramide, Cleopatra col suo veleno,
Achille e Paride, col cuore di schiena,
tutti fottuti da ‘sta merda di scena.
Poi li becco, stretti, come due bambini,
Francesca e Paolo, colpevoli e vicini.
(Un bacio, una riga, e finisci nel fango.)
«Se Dio ci volesse bene, lo pregheremmo anche per te»
dicono, e ti arriva addosso come un cazzotto in pieno petto.
(La voce è dolce – ma il dolore è marcio.)
[Ritornello – più ritmato, con cori] E girano, girano, sbattuti nel nulla,
tutto per un libro, una frase, una scusa.
E baciano, piangono, si stringono forte,
ma è tardi fratè… qui si paga la sorte.
[Bridge – parlato su beat lento] «Nessun maggior dolore che ricordare
il tempo felice nella merda più totale.»
Il rimorso – la vera croce addosso.
Un libro, uno sguardo, la pelle che brucia,
un bacio, ed è fatta – la linea si sfuma.
(Dante crolla – non per giudicare, ma perché è umano.)
[Outro – vocoder + synth eterei] Cado anch’io, come corpo che s’abbandona,
non condanno, ascolto… e porto la corona.
(La compassione non salva i dannati – ma può salvar chi ancora ha una scelta.)
Dal poema al beat: corrispondenze tra Dante e la trap
Il legame tra il testo originale e il brano trap non è solo tematico, ma strutturale e simbolico.
- Minosse, nel poema giudice imparziale, nella canzone diventa una coscienza feroce, che “legge l’anima” senza possibilità di appello.
- La bufera infernale resta il centro della pena: in Dante è vento fisico ed eterno, nella trap è anche tempesta interiore, instabilità emotiva, ossessione.
- I grandi personaggi storici (Semiramide, Cleopatra, Achille, Paride) sono citati come icone di eccesso, quasi celebrity distrutte dal desiderio.
- Francesca e Paolo mantengono il ruolo centrale: il libro galeotto diventa una “riga”, una scintilla, un attimo che cambia tutto. La loro voce è ancora dolce, ma immersa in un contesto linguistico che ne accentua la tragedia.
Il punto di contatto più profondo resta la pietà di Dante: nella canzone non c’è giudizio morale, ma ascolto. Il crollo finale dell’io narrante riprende fedelmente lo svenimento del poeta, trasformandolo in una riflessione moderna:
la compassione non salva i dannati,
ma può salvare chi è ancora vivo.
Inferno contemporaneo: perché il Canto V funziona ancora
Questa riscrittura dimostra quanto il Canto V dell’Inferno sia ancora attuale. L’amore che acceca, il desiderio che prende il controllo, la difficoltà di distinguere passione e distruzione sono temi che parlano perfettamente al presente.
La trap, con il suo linguaggio diretto e senza filtri, diventa uno strumento efficace per riattivare Dante, riportandolo fuori dai manuali scolastici e dentro un immaginario emotivo e sonoro contemporaneo.
