Dentro le Tombe Infuocate: il Canto X dell’Inferno
Il tema originale: gli eretici e l’orgoglio della città
Il Canto X dell’Inferno si svolge nel sesto cerchio, dentro la città di Dite, tra sepolcri infuocati che custodiscono le anime degli eretici, in particolare gli epicurei, colpevoli di aver negato l’immortalità dell’anima.
Dante e Virgilio camminano tra tombe scoperchiate, immerse nel fuoco eterno: un paesaggio che richiama i cimiteri medievali ma li trasforma in un teatro politico e ideologico.
Il canto è dominato dalla figura di Farinata degli Uberti, nobile fiorentino e ghibellino, che emerge dalla tomba con fierezza titanica. Attraverso lui, Dante mette in scena il conflitto civile di Firenze, ancora vivo nel Trecento: guelfi contro ghibellini, esilio, vendette e memoria storica.
Accanto a Farinata compare Cavalcante de’ Cavalcanti, padre di Guido, che introduce una delle tematiche più sottili del canto: la conoscenza limitata delle anime dannate, capaci di vedere il futuro ma cieche sul presente.
Il Canto X è quindi un nodo cruciale della Commedia: politica, filosofia, affetti privati e destino umano si fondono dentro una delle architetture infernali più potenti dell’opera.
Canto X – Inferno (Testo Originale)
Ora sen va per un secreto calle,
tra ’l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
«O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com’a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri.
La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt’i coperchi, e nessun guardia face».
E quelli a me: «Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno.
Però a la dimanda che mi faci
quinc’entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci».
E io: «Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’hai non pur mo a ciò disposto».
«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto».
Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio.
Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai».
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto.
E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte».
Com’io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».
Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso;
poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fiate li dispersi».
«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
rispuos’io lui, «l’una e l’altra fiata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte».
Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?».
E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.
Di subito drizzato gridò: «Come?
dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».
Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa:
e sé continuando al primo detto,
«S’elli han quell’arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa.
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?».
Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio».
Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».
«Deh, se riposi mai vostra semenza»,
prega’ io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza.
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo».
«Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta».
Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’vivi ancor congiunto;
e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto».
E già ’l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava.
Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico,
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio».
Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.
Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando.
«La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te», mi comandò quel saggio.
«E ora attendi qui», e drizzò ’l dito:
«quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il viaggio».
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede,
che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.
La versione trap: inferno urbano, memoria e fuoco
La reinterpretazione trap di “Tra le Tombe – Decimo Canto” trasporta l’Inferno dantesco in un immaginario urbano contemporaneo, dove le tombe diventano blocchi di cemento, il fuoco è rabbia sociale, e la dannazione coincide con l’incapacità di capire il presente.
Lo stile è trap moderno, con:
- beat cupo e ossessivo
- flow serrato e narrativo
- linguaggio crudo e diretto
- uso di slang come strumento espressivo, non decorativo
Il narratore mantiene il ruolo di Dante, ma parla con la voce di oggi: consapevole, ironico, disilluso. Farinata diventa l’emblema dell’orgoglio ideologico, mentre Cavalcante incarna il dolore universale del genitore, ancora potentissimo anche fuori dal contesto medievale.
La trap non semplifica il canto: lo traduce emotivamente, rendendo percepibili conflitti, colpa e memoria in una forma musicale attuale.
Tra le Tombe – Decimo canto (Trap Lyrics)
Brò… tra i muri, tra i martìri…
seguo il maestro, nell’inferno, fra’…
(tra la terra e il fuoco, io sto dietro)
Virtù somma, fammi strada in ‘sto vicolo segreto,
voce che mi guida, io rispetto, niente veto.
Vedo tombe aperte, nessuna guardia, tutto spento,
Epicuro ride, ma qui c’è solo tormento.
Sento voci da un sepolcro, fratè, mi fermo un attimo,
la lingua toscana mi sgama, Firenze resta il marchio.
Uno si alza: Farinata, petto dritto, sguardo d’odio,
sfida pure l’inferno, fottuto orgoglio.
Tra le tombe, fra’, vedo i morti che parlano,
il futuro lo conoscono ma il presente lo mancano.
(è fottuta merda, brò)
Tra le tombe, fra’, la città arde di rosso,
sangue d’Arbia scorre ancora, nel tempio è un colpo grosso.
Farinata mi squadra: “chi furono i tuoi maggiori?”,
io non scappo, apro il cuore, sputo fuori i miei valori.
“Nemici, li ho dispersi due volte” – dice serio,
ma la Storia, come spiega Sapegno, non ti dà privilegio.
Poi spunta Cavalcante, frà, piangendo in mezzo al buio,
cerca Guido, suo figlio, come luce in mezzo al nulla.
“È vivo o morto?” – chiede, cade giù col cuore spento,
‘sta città condanna i padri, Firenze è un tradimento.
Veggono il futuro, ma non vedono il presente,
‘sto inferno è scienza cruda, non filosofia vincente.
(da Aristotele a Auerbach, fra’, la lingua resta taglio)
qui la verità si paga col dolore, mica con un saggio.
Tra le tombe, fra’, vedo i morti che parlano,
il futuro lo conoscono ma il presente lo mancano.
(è fottuta merda, brò)
Tra le tombe, fra’, la città arde di rosso,
sangue d’Arbia scorre ancora, nel tempio è un colpo grosso.
Il maestro mi richiama: “non smarrirti, tieni a mente,
quando avrai la luce dolce, lei ti spiegherà il presente”.
(la verità ti aspetta, fratè)
E lasciamo le tombe, a sinistra piego il piede,
un sentiero puzza morte… e l’Inferno ancora chiede.
Canto X e Trap a confronto: fedeltà e trasformazione
| Dante | Brano Trap |
|---|---|
| Sepolcri infuocati degli eretici | Tombe urbane, spazio chiuso e soffocante |
| Epicuro e la negazione dell’anima | Materialismo, vuoto, nichilismo moderno |
| Farinata fiero e immobile | Orgoglio che sfida anche l’inferno |
| Cavalcante e il dubbio su Guido | Ansia genitoriale, assenza, silenzio |
| Conoscenza del futuro, cecità sul presente | Incapacità di capire “l’adesso” |
| Firenze come ferita politica | La città come colpa collettiva |
La relazione tra i due testi è di rispecchiamento: la trap non riscrive Dante, ma lo attraversa, usando suoni e parole di oggi per rendere attuali le sue stesse fratture.
