Il XVII canto dell’Inferno segna uno dei momenti più simbolici e inquietanti dell’intera Commedia: l’incontro con Gerione, la creatura che incarna la Frode. Dante e Virgilio si trovano sul bordo del settimo cerchio, dove sono puniti gli usurai, e da lì devono scendere verso l’ottavo cerchio, il regno dei fraudolenti. Gerione, con il volto d’uomo giusto e il corpo di serpente, rappresenta la doppiezza morale, la bellezza esteriore che nasconde veleno e inganno.
Il contesto storico e sociale è quello di una Firenze lacerata da lotte politiche, corruzione, speculazioni economiche e tradimenti. Dante conosce bene quel mondo e lo trasfigura in immagini potenti: stemmi sulle borse degli usurai, accuse reciproche tra città rivali, e soprattutto la figura mostruosa che incarna la menzogna istituzionalizzata. Il viaggio sul dorso di Gerione è un passaggio di soglia: un volo lento, circolare, carico di paura, che conduce Dante verso la parte più oscura dell’Inferno morale.
Canto XVII (Testo Originale)
CANTO XVII:
«Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti, e rompe i muri e l’armi!
Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!».
Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda
vicino al fin d’i passeggiati marmi.
E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
ma ’n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto;
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte.
Come tal volta stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi
lo bivero s’assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava.
Lo duca disse: «Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che colà si corca».
Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.
E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.
Quivi ’l maestro «Acciò che tutta piena
esperienza d’esto giron porti»,
mi disse, «va, e vedi la lor mena.
Li tuoi ragionamenti sian là corti:
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti».
Così ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.
Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
e di qua, di là soccorrien con le mani
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:
non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo, or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.
Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ’l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi
che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch’avea certo colore e certo segno,
e quindi par che ’l loro occhio si pasca.
E com’io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d’un leone avea faccia e contegno.
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa,
mostrando un’oca bianca più che burro.
E un che d’una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: «Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e perché se’ vivo anco,
sappi che ’l mio vicin Vitaliano
sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fiate mi ’ntronan li orecchi
gridando: “Vegna ’l cavalier sovrano,
che recherà la tasca con tre becchi!”».
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che ’l naso lecchi.
E io, temendo no ’l più star crucciasse
lui che di poco star m’avea ’mmonito,
torna’ mi in dietro da l’anime lasse.
Trova’ il duca mio ch’era salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: «Or sie forte e ardito.
Omai si scende per sì fatte scale:
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male».
Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo
de la quartana, c’ha già l’unghie smorte,
e triema tutto pur guardando ’l rezzo,
tal divenn’io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
I’ m’assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com’io credetti: ’Fa che tu m’abbracce’.
Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch’i’ montai
con le braccia m’avvinse e mi sostenne;
e disse: «Gerion, moviti omai:
le rote larghe e lo scender sia poco:
pensa la nova soma che tu hai».
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch’al tutto si sentì a gioco,
là ’v’era ’l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l’aere a sé raccolse.
Maggior paura non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;
né quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,
che fu la mia, quando vidi ch’i’ era
ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.
Ella sen va notando lenta lenta:
rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.
Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.
Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’io tremando tutto mi raccoscio.
E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti.
Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;
così ne puose al fondo Gerione
al piè al piè de la stagliata rocca
e, discarcate le nostre persone,
si dileguò come da corda cocca.
“Coda di Verità”: estetica urbana e simbolismo contemporaneo
La mia versione rilegge il canto con un linguaggio moderno, diretto e urbano, mantenendo intatto il nucleo tematico della frode ma traslandolo nel mondo contemporaneo. Il beat è cupo e pulsante, con un flow che alterna momenti narrativi a esplosioni emotive, rispecchiando il movimento lento e inquietante del volo su Gerione.
Lo stile fonde immagini dantesche con riferimenti alla cultura street: stemmi che diventano brand, squame “Gucci”, la paura resa come ansia urbana, la doppiezza morale trasformata in metafora sociale. Il testo gioca con la tensione tra apparenza e verità, tra estetica scintillante e contenuto velenoso, proprio come la creatura del canto. Il ritornello, ripetitivo e ipnotico, diventa un mantra sulla pericolosità del fidarsi delle apparenze.
Coda di Verità (Versione Trap)
[Titolo: “Coda di Verità” – Diciassettesimo canto][Intro – voce profonda, atmosfera cupa, beat lento e pulsante]
Ecco la fiera, fratè, ha la coda che taglia l’aria (yeah)
Passa i monti, rompe i muri, brò, non c’è barriera (nah)
Bella fuori, dentro veleno, tipo chi ti parla piano (ssss)
(ma ti scava il petto: piano piano)
[Strofa 1 – flow narrativo, tono riflessivo ma deciso]
La guardo in faccia, sembra giusta, pare verità,
ma sotto pelle, zio, è tutta falsità.
Gerione s’attorciglia, gira lento, fa paura,
come un sorriso dolce che nasconde la sventura.
ha le braccia pelose, frà, fino all’ascella,
le squame son Gucci, ma l’anima è nera pe’ davvero, fratellà.
(Tutta scena, tutto finto)
E Dante cammina piano, ma ci ha l’ansia in petto,
Virgilio gli dice “vai”, io lo sento: “stai attento”.
[Ritornello – melodia intensa, flow emotivo e ripetuto]
Sali su la coda della verità (ah)
Ti porta giù, ma non sai dove va (eh)
(Non guardare giù)
Fidati del volto, e ti bruci l’anima (brò)
‘Sta fottuta fiera, fratè, ti frega e se ne va.
[Strofa 2 – ritmo più serrato, tono più urbano e moderno]
Lì tra i dannati, frà, li vedi piangere soldi,
tasche con stemmi, ma il cuore non risponde.
Un leone dorato, un’oca bianca, un maiale blu,
ognuno marchiato dal peso di ciò che fu.
“Che cazzo fai qui giù?” – mi grida un dannato,
io sono vivo, ma il mio sguardo è già marchiato.
(Nessuno scappa)
Padova, Firenze, si accusano tra i banchi,
ma fratè, la frode veste sempre con i fianchi larghi.
(Gadamer direbbe: apparenza è senso, ma Eco ci avvisa: il segno mente spesso)
E io lo so, zio, la verità è doppia,
come la coda che si torce e ti soffoca.
[Bridge – atmosfera sospesa, battito lento e profondo]
Mi siedo sulla schiena del mostro (uh)
Vergogna in gola, paura che strozza (ah)
Lui scende lento, gira, ruota,
la mente mia si spezza, frà, la fede crolla.
(Non guardare giù, non guardare giù)
Fetonte cade, Icaro brucia,
io tremo, zio, ma tengo la mia luce.
[Ritornello – con intensità maggiore, voce doppia]
Sali su la coda della verità (ah)
Ti porta giù, ma non sai dove va (yeah)
(Non fidarti mai)
Fidati del volto, e ti bruci l’anima (eh)
Sta fottuta fiera, fratè, ti frega e se ne va.
[Outro – tono calmo, riflessivo, quasi sussurrato]
Si dilegua come freccia da corda,
lascia il segno, frà, ma poi s’allontana.
Gerione è dentro chi mente e sorride,
ma la verità, fratellaccio, graffia e incide.
(Sempre)
(Tutto torna, giù nel gorgo)
Confronto: due linguaggi per la stessa verità
La relazione tra il canto originale e questa versione trap è diretta e coerente:
Gerione come simbolo della frode Dante lo descrive con volto umano e corpo serpentino; nella versione trap diventa metafora delle persone che “parlano piano” ma scavano dentro, di chi veste lusso ma porta veleno.
Il volo come esperienza di paura e consapevolezza Nel poema è un momento di terrore controllato; nel brano trap diventa un viaggio mentale, un crollo emotivo, un confronto con la verità che “ti brucia l’anima”.
Gli usurai e i loro stemmi Dante li rappresenta con borse araldiche; nella canzone diventano simboli di un mondo dove il denaro domina e marchia le persone, trasformando la condanna morale in critica sociale contemporanea.
Il linguaggio della doppiezza Dante usa immagini medievali; la versione trap usa slang, riferimenti culturali moderni e citazioni filosofiche (Gadamer, Eco) per ribadire che il segno inganna oggi come allora.
In sintesi, la mia reinterpretazione non tradisce il canto: lo traduce. Mantiene il cuore tematico — la frode, la paura, la verità che graffia — e lo porta in un immaginario che parla al presente.
Luigi Nuscis, nato a Carbonia nel 1974, è un software developer che coltiva la passione per l’informatica fin da bambino. Tutto è iniziato nel 1985 con un Atari 800XL, e da allora la curiosità si è trasformata in una professione, nel 1999.
In questo blog racconta esperienze, ricordi e curiosità, intrecciando tecnologia, scienza e amore per la scrittura.