Il Canto IV dell’Inferno: Il Limbo
Il Canto IV dell’Inferno introduce il Limbo, primo cerchio dell’Inferno, un luogo sospeso e privo di tormenti fisici. Qui sono accolte le anime che non hanno peccato, ma che non hanno potuto accedere alla salvezza perché vissute prima del Cristianesimo o senza battesimo.
Il dolore che domina il Limbo non è violento, ma profondo e silenzioso: è la mancanza eterna della visione di Dio, una condizione di desiderio senza speranza.
Dante colloca nel Limbo le grandi figure dell’antichità: poeti, filosofi, condottieri, uomini e donne di altissimo valore morale e intellettuale. È un canto fortemente legato al contesto storico e culturale medievale, in cui la fede cristiana è considerata l’unica via alla salvezza, ma al tempo stesso rappresenta un grande atto di omaggio umanistico verso il sapere classico.
Il Canto IV è anche il momento in cui Dante-poeta viene simbolicamente accolto tra i grandi, entrando a far parte della “bella scola” dei poeti antichi.
📜 Canto IV – Inferno (Testo Originale)
un greve truono, sì ch’io mi riscossi
come persona ch’è per forza desta;
e l’occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov’io fossi.
Vero è che ’n su la proda mi trovai
de la valle d’abisso dolorosa
che ’ntrono accoglie d’infiniti guai.
Oscura e profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.
«Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
cominciò il poeta tutto smorto.
«Io sarò primo, e tu sarai secondo».
E io, che del color mi fui accorto,
dissi: «Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?».
Ed elli a me: «L’angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.
Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che l’abisso cigne.
Quivi, secondo che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri,
che l’aura etterna facevan tremare;
ciò avvenia di duol sanza martìri
ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi,
d’infanti e di femmine e di viri.
Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,
ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi;
e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi,
che sanza speme vivemo in disio».
Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.
«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,
comincia’ io per voler esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
«uscicci mai alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?».
E quei che ’ntese il mio parlar coverto,
rispuose: «Io era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.
Trasseci l’ombra del primo parente,
d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moisè legista e ubidente;
Abraàm patriarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co’ suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fé;
e altri molti, e feceli beati.
E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati».
Non lasciavam l’andar perch’ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand’io vidi un foco
ch’emisperio di tenebre vincia.
Di lungi n’eravamo ancora un poco,
ma non sì ch’io non discernessi in parte
ch’orrevol gente possedea quel loco.
«O tu ch’onori scienzia e arte,
questi chi son c’hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?».
E quelli a me: «L’onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazia acquista in ciel che sì li avanza».
Intanto voce fu per me udita:
«Onorate l’altissimo poeta:
l’ombra sua torna, ch’era dipartita».
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand’ombre a noi venire:
sembianz’avevan né trista né lieta.
Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».
Così vid’i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’aquila vola.
Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e ’l mio maestro sorrise di tanto;
e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
Così andammo infino a la lumera,
parlando cose che ’l tacere è bello,
sì com’era ’l parlar colà dov’era.
Venimmo al piè d’un nobile castello,
sette volte cerchiato d’alte mura,
difeso intorno d’un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne’ lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci così da l’un de’ canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti quanti.
Colà diritto, sovra ’l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m’essalto.
I’ vidi Eletra con molti compagni,
tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pantasilea;
da l’altra parte, vidi ’l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzia e Corniglia;
e solo, in parte, vidi ’l Saladino.
Poi ch’innalzai un poco più le ciglia,
vidi ’l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
quivi vid’io Socrate e Platone,
che ’nnanzi a li altri più presso li stanno;
Democrito, che ’l mondo a caso pone,
Diogenés, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono accoglitor del quale,
Diascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulio e Lino e Seneca morale;
Euclide geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galieno,
Averoìs, che ’l gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.
La sesta compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l’aura che trema.
E vegno in parte ove non è che luca.
La versione trap – Pena e desiderio
La versione trap del Canto IV rilegge il Limbo come uno spazio mentale e simbolico, un luogo in cui il dolore non urla ma pesa. Il flow è moderno, alternando rap evocativo, parti cantate malinconiche e spoken word, mantenendo un tono intimista e contemplativo.
Il Limbo diventa metafora di una generazione sospesa: persone di valore, intelligenti e sensibili, che però restano escluse da una “luce” più grande.
La trap non stravolge il senso originale, ma lo attualizza, trasformando il concetto di fede in una riflessione più ampia su appartenenza, riconoscimento e limite umano.
L’uso di hook cantati e bridge parlati restituisce il senso di immobilità e nostalgia che permea il canto dantesco.
🎧 Nel Cerchio del Limbo (Trap Version)
Qui il tempo è fermo, e la fede non vale… Strofa 1 rap evocativo Mi sveglia un tuono che rimbalza in testa (boom)
sogno che esplode, realtà che resta.
L’orlo del baratro – nero, immenso,
nessuna eco, nessun senso. Bridge parlato sussurrato Il Poeta dice: “Scendiamo.”
(passo dopo passo, fratello, andiamo…)
Lui non ha paura –
è solo pietà che fa tremare la sua figura. Strofa 2 È il Limbo, sospiri e nostalgia:
anime grandi, senza bestemmia o eresia.
Non han peccato, ma manca la luce –
nessun battesimo, nessuna croce. Hook cantato pop, tono aperto e malinconico Nel Limbo il tempo non muore,
vivi d’amore ma senza ardore.
Anime alte, senza condanna –
ma la speranza qui… è manna amara. “Cristo è sceso” – dice il mio maestro – “strappò i giusti al silenzio funesto.” Strofa 3 Adamo, Mosè, patriarchi e santi,
liberati dal fuoco dei rimpianti. Strofa 4 rap poetico veloce Scorgo un bagliore, fuoco che non brucia:
è luce di fama che mai si consuma.
Poeti eterni, spiriti intensi –
Omero e Ovidio, su versi immensi. Hook 2 cantato + spoken, corale Onorate il Poeta che ritorna,
la sua parola nel buio riforma.
Sesto tra i grandi, fianco a fianco,
in questo canto… io non mi stanco. Strofa 5 Entriamo in un castello, sette giri, un prato.
Sapienza ovunque, il tempo è placato.
Platone, Aristotele, Socrate in centro –
ma resta il Limbo… ed è qui che mi addentro. Outro parlato poetico Poi usciamo, e la luce si spegne.
Tutto tace, e l’ombra ci insegna:
non basta il genio, né la ragione –
senza la fede… resta prigione.
Confronto tra originale e brano trap: Stesso cerchio, nuove voci
Nel testo originale Dante descrive il Limbo con uno stile solenne, classico e misurato, in cui il dolore è trattenuto e quasi nobilitato. Nella versione trap, quello stesso dolore diventa emotivo e immediato, espresso attraverso immagini sonore, metafore urbane e un linguaggio diretto.
La “bella scola” dei poeti diventa una crew di leggende, il castello illuminato si trasforma in un luogo di fama e memoria eterna, e Dante stesso assume il ruolo dell’artista che entra in un pantheon culturale.
Entrambe le versioni condividono un punto centrale: il valore umano non basta senza una dimensione trascendente, e il Limbo resta un luogo di grandezza incompiuta.
