Il Terzo Cerchio dell’Inferno: la Gola e la Città Malata
Il Canto VI dell’Inferno si svolge nel terzo cerchio, dove Dante colloca i peccatori di gola. L’ambiente è dominato da una pioggia eterna, fredda e putrida, composta da acqua sporca, grandine e neve, che cade senza tregua su anime ridotte a un’esistenza animalesca. A sorvegliare questo cerchio c’è Cerbero, mostro a tre teste che incarna l’insaziabilità e la ferocia della fame.
Il canto, però, va ben oltre la colpa individuale. L’incontro con Ciacco, fiorentino noto per la sua voracità, diventa il pretesto per una lucida analisi politica e sociale: Dante denuncia la corruzione morale di Firenze, dilaniata da lotte interne, superbia, invidia e avarizia. Siamo nel pieno delle tensioni tra Bianchi e Neri, e la Commedia si conferma non solo poema ultraterreno, ma anche strumento di critica storica e civile.
Inferno – Canto VI (Testo Originale)
Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d’i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,
novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch’io mi mova
e ch’io mi volga, e come che io guati.
Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.
Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia come cani;
de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.
E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.
Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,
e si racqueta poi che ’l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,
cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che ’ntrona
l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.
Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.
Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.
«O tu che se’ per questo ’nferno tratto»,
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».
E io a lui: «L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».
Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé parola.
Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita».
E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’aonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi».
Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: «Ancor vo’ che mi ’nsegni,
e che di più parlar mi facci dono.
Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,
dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se ’l ciel li addolcia, o lo ’nferno li attosca».
E quelli: «Ei son tra l’anime più nere:
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.
Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo».
Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco, e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.
E ’l duca disse a me: «Più non si desta
di qua dal suon de l’angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:
ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch’in etterno rimbomba».
Sì trapassammo per sozza mistura
de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;
per ch’io dissi: «Maestro, esti tormenti
crescerann’ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?».
Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.
Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta».
Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’i’ non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
“Pioggia Eterna”: Dante incontra la Trap
La riscrittura trap del canto, intitolata “Pioggia Eterna – Sesto canto”, trasporta l’immaginario dantesco in un linguaggio contemporaneo, urbano e diretto. Il flow moderno, i riferimenti colloquiali e il lessico della street culture convivono con versi che restano sorprendentemente fedeli alle immagini originali: il freddo, il fango, la fame, il degrado.
Il beat è immaginato come pesante, cupo, quasi soffocante, proprio come l’ambiente del terzo cerchio. Le parentesi fuori campo funzionano come note critiche sonore, citando studiosi (Auerbach, Singleton, Benvenuto da Imola) e trasformando il commento dantesco in una sorta di meta-rap: la canzone non racconta solo l’Inferno, ma riflette anche su come l’Inferno è stato letto nei secoli.
Pioggia Eterna – Sesto Canto (Trap Version)
(pioggia eterna, grandine grossa)
Ciacco mi guarda, la gola lo spegne
(frà, la colpa che ti pesa addosso) [strofa 1] Al tornar de la mente, confuso nel vaìb
nuovi tormenti, fratè, pioggia che non va mai via
etterna, maladetta, fredda come neve,
la terra puzza, bro, qui la gente non si beve. Cerbero latra, tre gole in stereo,
occhi vermigli, la fame è un impero
graffia gli spiriti, li squarta, li strappa,
l’urlo si mischia alla pioggia che batte. Auerbach dice: “realismo crudo” (suona come un basso pesante e sporco che scuote il muro) [ritornello] Brò, sto nell’inferno, piove gelo e fuoco
Ciacco mi parla, frà, non resta poco
superbia, invidia, avarizia: tre scintille accese
la tua città trabocca, e il sangue poi scende. Firenze divisa (Benvenuto da Imola) (la discordia è fame che non cede) [strofa 2] “Riconoscimi”, dice, “mi chiamaste Ciacco”
condannato alla pioggia, bro, mi manca il fiato.
Non è solo, frà, colpa condivisa
gola che pesa, anima intristita. Mi parla di fazioni, la parte selvaggia
sopra l’altra, sangue che dilaga,
“giusti son due”, ma non ascoltati,
la città brucia, gli spiriti dannati. Singleton: parabola politica (tutta Firenze è dentro la critica) [ritornello] Brò, sto nell’inferno, piove gelo e fuoco
Ciacco mi parla, frà, non resta poco
superbia, invidia, avarizia: tre scintille accese
la tua città trabocca, e il sangue poi scende. [bridge] Maestro, chiedo: crescerà sta pena?
Dopo la sentenza, sarà fuoco o catena?
Risponde: “più perfetta è la sostanza,
più sente gioia, più sente mancanza”. Eco della scienza di Aristotele (il beat si fa lento, ma resta crudele) [outro] Noi passiamo tra ombre, pioggia e fango
passi lenti, futuro che è già danno.
Cade Ciacco, cieco come gli altri,
Pluto ci attende, il nemico agli argini. (yeah, yeah, brò… fine del cerchio) (l’inferno non dorme mai, fra’)
Dal Poema al Microfono: corrispondenze tra Dante e Trap
Il legame tra il testo originale e il brano trap è stretto e consapevole:
- La pioggia eterna diventa metafora sonora: nel canto è fisica e disgustosa, nella trap è anche mentale, un loop che non finisce mai.
- Cerbero, simbolo della fame bestiale, viene reso come una presenza “in stereo”, amplificata, quasi un subwoofer infernale.
- Ciacco resta il fulcro narrativo: nel poema è un dannato che parla con dignità tragica, nel brano trap è una voce stanca ma lucida, che denuncia una colpa collettiva.
- La critica a Firenze si trasforma in una critica universale: la città che “trabocca” diventa ogni contesto urbano dominato da avidità e conflitto.
- Le tre faville (superbia, invidia, avarizia) funzionano come hook concettuale del ritornello, mantenendo intatta la forza morale del messaggio dantesco.
In entrambi i casi, la gola non è solo fame di cibo, ma fame di potere, di possesso, di dominio.
Un Inferno che Parla Ancora
Questa versione trap non banalizza Dante, ma lo riattiva. Dimostra che la Commedia può ancora parlare attraverso linguaggi nuovi, senza perdere profondità. Il terzo cerchio resta un luogo di punizione, ma diventa anche uno specchio contemporaneo: pioggia eterna come algoritmo, fango come rumore di fondo, dannazione come assuefazione.
Dante cammina, oggi, sopra un beat.
