Canto VIII: Ira, fango e potere che marcisce
Il Canto VIII dell’Inferno segna uno dei passaggi più cupi e violenti della prima parte della Divina Commedia. Dante e Virgilio attraversano la palude Stigia, un lago di fango e acqua putrida dove sono puniti gli iracondi e gli accidiosi, anime travolte dall’ira repressa o esplosa in vita.
Qui compare Flegiàs, nocchiero infernale, simbolo dell’ira cieca e incontrollata, e soprattutto Filippo Argenti, nobile fiorentino noto per arroganza e violenza. L’incontro è uno dei pochi momenti in cui Dante-personaggio mostra un compiacimento esplicito nella punizione di un dannato, segnando una crescita morale controversa ma consapevole.
Il canto si chiude con un passaggio storico e simbolico fondamentale: l’arrivo alle porte della Città di Dite, la metropoli infernale del peccato più consapevole, con mura di ferro infuocate e demoni ribelli che sfidano apertamente l’autorità divina. È il punto in cui l’Inferno smette di essere solo punizione e diventa struttura di potere.
Canto VIII – Inferno (Testo Originale)
Io dico, seguitando, ch’assai prima
che noi fossimo al piè de l’alta torre,
li occhi nostri n’andar suso a la cima
per due fiammette che i vedemmo porre
e un’altra da lungi render cenno
tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.
E io mi volsi al mar di tutto ’l senno;
dissi: «Questo che dice? e che risponde
quell’altro foco? e chi son quei che ’l fenno?».
Ed elli a me: «Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che s’aspetta,
se ’l fummo del pantan nol ti nasconde».
Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l’aere snella,
com’io vidi una nave piccioletta
venir per l’acqua verso noi in quella,
sotto ’l governo d’un sol galeoto,
che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!».
«Flegiàs, Flegiàs, tu gridi a vòto»,
disse lo mio segnore «a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto».
Qual è colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegiàs ne l’ira accolta.
Lo duca mio discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand’io fui dentro parve carca.
Tosto che ’l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l’antica prora
de l’acqua più che non suol con altrui.
Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?».
E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango».
E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto».
Allor distese al legno ambo le mani;
per che ’l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!».
Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi ’l volto, e disse: «Alma sdegnosa,
benedetta colei che ’n te s’incinse!
Quei fu al mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s’è l’ombra sua qui furiosa.
Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!».
E io: «Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago».
Ed elli a me: «Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disio convien che tu goda».
Dopo ciò poco vid’io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»;
e ’l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.
Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,
per ch’io avante l’occhio intento sbarro.
Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo,
s’appressa la città c’ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo».
E io: «Maestro, già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno
ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno».
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.
Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
«Usciteci», gridò: «qui è l’intrata».
Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?».
E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno,
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada,
che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai
che li ha’ iscorta sì buia contrada».
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.
«O caro duca mio, che più di sette
volte m’hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette,
non mi lasciar», diss’io, «così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto».
E quel segnor che lì m’avea menato,
mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase,
e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
«Chi m’ha negate le dolenti case!».
E a me disse: «Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’a la difension dentro s’aggiri.
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr’essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta».
🔥 La versione trap – Fango, flow e fuoco urbano
La mia versione trap del Canto VIII trasporta l’Inferno dantesco in un immaginario urbano contemporaneo, fatto di acqua nera, rabbia repressa e bassi scuri. Il linguaggio diretto, lo slang e il flow moderno trasformano il viaggio ultraterreno in una navigazione mentale, dove il fango diventa metafora di disagio sociale, rancore e identità spezzate.
Il rapporto tra Dante e Virgilio viene riletto come una fratellanza di strada, un legame di fiducia che resiste mentre tutto intorno è ostile. Flegiàs non è più solo un demone mitologico, ma un traghettatore fuori controllo, quasi un boss del degrado, mentre Filippo Argenti incarna l’arroganza tossica di chi domina senza valore.
Il ritornello martellante e le immagini visive forti rendono il brano adatto non solo all’ascolto, ma a una fruizione quasi cinematografica, dove il fuoco di Dite osserva dall’alto come una skyline infernale.
Fiamme in Cima – Ottavo canto (Versione Trap)
Yo, yo, frà, partiamo!
(Guarda su, guarda su)
Brò, fiamme in cima, senti?! Yeah!
Io e il duca, torre alta ai piedi
Occhi su, due fiamme, l’altra da lontano spicca
(Tanto che a stento la vista regge)
Yo, mare di pensieri, frà, chi parla? chi risponde?
Ma il maestro dice: “Su, guarda oltre il fumo, bro!”
Piccola nave, un timoniere urla forte:
“Or se’ giunta, anima fella!”
Flegïàs nocchiero, ira che spacca il vento
(Ma noi passiamo, brò, niente ci ferma!)
Brò, girando tra fango e acqua nera, ah!
Anime maledette, piangono senza bandiera
Dante lo sapeva, frà!
Io saldo col mio duca, brò, non mi fermo
Sotto il cielo d’inferno, il fuoco ci osserva, yeah!
Fili d’acqua e fango, mani che si tendono
Col maestro in barca, prora segna il passo lento
Mille spiriti cadono sulle porte, ah!
Chi cammina tra i morti, senza velo?
Segreti parlano, porte chiudono, disdegno pesa
Ma il maestro fa segno: “Solo frà, vai, resterai illeso!”
Yo, non temere, strada dura brò
Parole maledette, colpiscono come Glock
Speranza c’è, conforto in mezzo al fango, yeah!
(Sotto lo sguardo rosso del fuoco, non cadiamo!)
Brò, girando tra fango e acqua nera, ah!
Anime maledette, piangono senza bandiera
Dante lo sapeva, frà!
Io saldo col mio duca, brò, non mi fermo
Sotto il cielo d’inferno, il fuoco ci osserva, yeah!
Così sen va, lo lascio, spirito conforta
Occhi bassi, passi lenti, prova si porta
Porte chiuse non bastano, tracotanza vecchia
Io col duca, strada stretta, brò, sempre
(Frà, guardami bene… siamo vivi qui, sempre!)
⚖️ Dante e la trap: lo stesso inferno, linguaggi diversi
Il legame tra il canto originale e il brano trap è profondo e tutt’altro che superficiale.
Nel testo di Dante:
- l’ira è punizione eterna
- il fango è degradazione morale
- Dite rappresenta il potere corrotto e organizzato
Nella versione trap:
- l’ira diventa rabbia urbana e identitaria
- il fango è ambiente sociale che ti risucchia
- Dite è una città-sistema, chiusa, ostile, che respinge chi non appartiene
Il flow sostituisce la terzina, ma mantiene la stessa funzione: guidare l’ascoltatore attraverso un inferno riconoscibile, dove il peccato non è astratto ma quotidiano. La trap, come Dante, non giudica dall’alto: racconta stando dentro il fango.
🎧 Perché ho pubblicato testo e mp3 insieme
Affiancare il testo originale al brano trap permette al lettore/ascoltatore di cogliere continuità e trasformazione. Non è una riscrittura irriverente, ma un’operazione culturale: Dante come storyteller contemporaneo, capace ancora di parlare di potere, rabbia e esclusione.
Il risultato è un’esperienza doppia: si legge con la testa e si ascolta con la pancia.
